Impressioni di lettura: Il quaderno di Didine, di Dominique Valton
Alcuni libri divertono, altri ci fanno pensare, poi ci sono quei pochi che lasciano un segno. Non ricordo chi lo disse e neanche se la citazione sia proprio questa, ma condivido la sostanza di questo pensiero: lo scrittore spesso non racconta la sua storia ma porta alla superficie la storia di chi legge. Per capire cosa intendo e soprattutto per scoprire davvero cosa questo racconto ha evocato in me, dovrete seguirmi per qualche riga.
La prima volta che ho messo piede in un orfanotrofio, e lo chiamo così perché così lo si chiamava all'epoca, è stato quando ero ancora un adolescente. Frequentavo la parrocchia e il gruppo di ragazzi cui appartenevo era guidato da un prete; Don Giovanni si chiamava. Di lui potrei parlare a lungo, dirò solo che in un modo o nell'altro ha inciso molto in quello che crescendo sono diventato.
Questo prete, comunque, ci spingeva, o forse dovrei dire ci trascinava, in situazioni e relazioni di cui ragazzi della nostra età difficilmente avrebbero avuto esperienza. La visita a quell'orfanotrofio fu una delle tante cose "strane" che ci trovammo a fare in quegli anni.
La ricordo molto bene. Al contrario di mille altre cose che ho dimenticato, di quella giornata ricordo ogni minuscola cosa. Soprattutto ricordo i sentimenti. I nostri e quelli dei bambini e dei ragazzi che trovammo in quella struttura. Emozioni intense, tutte quante, quelle gioiose durante il gioco con i bambini e quelle ancora più forti di tristezza quando arrivò il momento di andare via. Di rabbia anche, da parte dei ragazzi che avevano ormai la nostra età ed erano ancora costretti lì.
Volevamo tornarci il prima possibile ma quell'anziano prete ci diede una lezione sulla responsabilità. Se pensate di tornare, ci disse, dovete essere consapevoli che già dalla seconda volta vi prendete un impegno. Se siete certi di poterlo mantenere nel tempo tornate pure, altrimenti non illudete questi bambini con una speranza vana. Sarebbe come abbandonarli un'altra volta.
Molti anni dopo sono rientrato in un istituto insieme a mia moglie e mi sono scontrato di nuovo con i bambini. "Siete sposati?", "Avete casa grande?", "Avete figli?", domande non certo casuali che attendevano risposta. Un paio di anni dopo ne siamo usciti con quella che è diventata nostra figlia. Nel mezzo tante storie che potrei raccontare, tanti bambini e ragazzi che avevano bisogno di sentirsi importanti per qualcuno.
Spero di non avervi annoiati raccontandovi un pezzo di me, ma era necessario per capire che questa favola, il quaderno di questa bambina, seppure racconti in punta di fioretto, con una delicatezza squisita, i problemi, i sentimenti, le paure e le aspettative di queste piccole persone, mi ha toccato nel profondo.
Quando ho iniziato a leggere mi aspettavo una favola, così dice il sotto titolo, poche righe dopo avevo capito dove mi avrebbe portato l'autrice ed ho avuto un attimo di panico, perché non c'è cosa più odiosa che sentirsi raccontare certi dolori e certe tribolazioni in maniera falsa, edulcorata, melensa. Ma così non è stato. Seppure la narrazione proceda su un registro dolcissimo, nonostante l'estrema attenzione a mantenere il tono soave, tutta la verità, tutta la complessità che possiamo trovare in questi bambini, è lì, sottile ma presente, sfumata e lieve, ma sincera.
Io davvero non so quali siano le esperienze di Dominique in questo campo, sta di fatto che ha saputo cogliere alla perfezione i drammi e le sofferenze di bambini soli, il loro desiderio di attenzione e calore umano, la loro brama di essere amati senza corrispettivo, gratuitamente, per quello che sono. Lo ha fatto con la mano leggera di un artista che stende i colori di un acquerello, impalpabili eppure vividi, delicati eppure potenti.
Non posso che ringraziarla, per il racconto che ha scritto, per l'amore che ci ha messo, per aver trasformato una delle cose più terribili del mondo in una fiaba. Sopra ogni altra cosa per avermi fatto ritrovare tramite le sue parole un piccolo pezzo di me. Grazie.
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